Il suicidio economico dell’Europa

Domenica 15 aprile è apparso sul New York Times un articolo di Paul Krugman dal titolo emblematico “Il suicidio economico dell’Europa”, in cui il premio Nobel mette in discussione la moneta unica, suggerendo l’uscita dall’euro e il ripristino delle monete nazionali. Non a caso, nella traduzione apparsa su La Repubblica del 20 aprile, il titolo è stato cambiato in “L’Europa può salvarsi se si libera dell’euro”.

Per ciò che riguarda lo specifico italiano, allo stato attuale bisogna riconoscere che l’euro non ci ha fatto molto bene. Il nostro debito pubblico è passato da 1.145 miliardi di euro del 2001 a 1.935 miliardi di euro attuali, il suo rapporto con il PIL ha raggiunto il record del 123%, superando persino il picco del 1994. Il potere d’acquisto dei lavoratori è diminuito di 5.500 euro annui. L’incremento del PIL non ha mai superato l’1,9% dal 2001, con un picco negativo del -5,1% nel 2009. L’andamento del risparmio medio familiare ha segnato un netto calo, passando dal 23% del 1990 a meno del 10% attuale, in termini reali si è ridotto del 60%, da circa 4.000 euro annui del 1990 ai 1.500 attuali. I consumi sono scesi al livello peggiore dal dopoguerra, mentre la disoccupazione ha raggiunto il 9,3% della forza lavoro, a cui vanno aggiunti più di 3 milioni di persone che un lavoro hanno smesso di cercarlo, oltre a tutti i lavoratori in cassa integrazione e in mobilità, che hanno abbondantemente superato il mezzo milione. Probabilmente il tasso reale di disoccupazione si aggira oggi attorno al 12% della popolazione. In compenso possiamo goderci una tra le più alte pressioni fiscali al mondo, con servizi pubblici che assomigliano sempre più a quelli del terzo mondo.

Molti di questi dati negativi hanno radici lontane, che sono stati accentuati dalla crisi iniziata nel 2008, ma la presenza dell’euro non li ha certamente migliorati. Inoltre vale la pena di annotare che i paesi che più hanno sofferto gli effetti della crisi, e che tuttora ne stanno soffrendo, hanno adottato l’euro come propria moneta, mentre economie più piccole e marginali, esterne all’area euro, non ne hanno risentito in maniera così intensa.

Tutto ciò porta a ritenere che, sebbene l’euro non sia stato causa della crisi, si è però dimostrato essere una camicia di forza che ne ha accentuato gli effetti negativi nei paesi periferici.

L’aggravarsi delle condizioni economiche nei paesi PIIGS (ma anche in Francia), sta mettendo in discussione il tabù della moneta unica, che, come è giusto che sia, deve poter essere dibattuto al pari di ogni altro fattore, senza preconcetti ideologici. L’euro poteva e può ancora diventare un fattore di stabilizzazione e coesione europea, a patto di modificare i criteri che guidano la politica economica europea. Occorre prendere atto che il surplus tedesco è l’altra faccia dei deficit dei paesi ad economia più debole ed avviare un’azione di trasferimento di risorse. E’ altresì necessario dotare la BCE degli stessi strumenti con cui le altre banche centrali riescono a contrastare la crisi. Ben venga una convergenza delle politiche fiscali europee, a patto che l’Europa si doti finalmente di un governo vero, liberamente eletto, che riesca a rappresentare anche gli interessi dei deboli.

In mancanza di tutto ciò, sarà meglio sfilarsi prima che l’edificio crolli, con la consapevolezza che in ogni caso le conseguenze saranno traumatiche. Ma il ripristino della sovranità politico-economica potrebbe aprire delle prospettive future di ripresa, altrimenti inesistenti, e dare una speranza d’approdo dopo la tempesta.

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Pubblicato da Rosso Malpelo

Libero pensatore