La Crisi vista dal 2014

capannoneDelle innumerevoli conseguenze della drammatica crisi economica che perdura ormai da più di un lustro, si può avere esperienza diretta, laddove la riduzione o la perdita del lavoro, e quindi di reddito, riguarda noi stessi o un nostro familiare; oppure si può averne cognizione indiretta, leggendo i dati e le cronache sui giornali o guardando i servizi giornalistici in TV, o ancora osservando la vita degli altri che ci circondano.

In quest’ultimo caso, molto dipende dal punto d’osservazione. Gli effetti della crisi sono infatti distribuiti disomogeneamente nelle varie aree del Paese ed anche all’interno delle città e delle zone della stessa area geografica, si riscontrano differenze notevoli.

Fino a prima della crisi c’erano (e in parte ci sono ancora) aree che si connotavano per una diffusa imprenditoria, ed altre votate più al terziario. C’erano i distretti industriali e i poli manifatturieri, ma anche aree agricole sviluppate, come pure zone a vocazione turistica e altre ancora, soprattutto nel Mezzogiorno, che in crisi sono sempre state e dipendono, oggi come in passato, dai trasferimenti statali. Su ciascuna di queste realtà la crisi ha prodotto e sta ancora producendo effetti più o meno devastanti, a seconda della struttura produttiva, dei mercati di sbocco, delle reti di aiuto sociale, della ricchezza accumulata negli anni e di svariati altri fattori, che danno luogo a situazioni di volta in volta differenti.

Ad esempio, se le piccole attività commerciali di vicinato in una città votata alla manifattura come Torino, sono state investite in pieno dalla crisi dei consumi, subendo una vera e propria decimazione, in città dove prevalgono attività terziarie, quali il turismo e la pubblica amministrazione, i negozi di vicinato, pur accusando una sensibile contrazione delle vendite, non stanno sperimentando le drammatiche conseguenze della desertificazione dei distretti industriali che costituivano l’anello industriale di Torino.

I distretti industriali sono stati per anni alla base del nostro sviluppo economico, fondato sulla piccola imprenditoria, spesso a conduzione familiare, concentrata in gruppi di capannoni industriali in aree più o meno periferiche, dove ferveva l’attività di numerosi addetti e che giacciono ora abbandonati con i loro cartelli vendesi o affittasi. Centinaia di piccole aziende, il più delle volte sub-fornitori di altre, hanno chiuso i battenti lasciando a casa decine di migliaia di lavoratori. Altrettante famiglie che hanno dovuto drasticamente contenere le spese e confrontarsi con l’improbabilità di trovare lavoro, in un contesto generalizzato di depressione economica.

Anche se all’interno delle stesse città continuano ad esistere i quartieri alti, con dimore lussuose abitate da una fortunata minoranza benestante a cui la crisi non ha arrecato particolari danni, nei quartieri popolari e della media borghesia aumentano a vista d’occhio i poveracci che razzolano nei cassonetti o tra gli scarti dei mercati rionali. Aumentano i mendicanti lungo i marciapiedi, aumentano gli affamati in fila alle mense della Caritas, aumentano coloro che devono rinunciare ad esami e cure mediche e odontoiatriche.

L’esibizione del lusso in queste condizioni non è più glamour, rischia invece di apparire una beffa all’indigenza, proprio come nell’Ottocento, alimentando la rabbia che la gente cova dentro.

Le PMI che esportano i loro prodotti stanno soffrendo il peso di un euro troppo forte, perdendo di competitività sui mercati esteri, mentre quelle rivolte al mercato nazionale, patiscono la forte contrazione dei consumi interni. La stretta creditizia operata dalle banche ha finito per metterne in ginocchio moltissime, decretandone la fine, spesso coadiuvata dall’Agenzia delle Entrate.

Nel Nord ex-industriale del Paese, maestranze costituite in buona parte anche da immigrati meridionali di seconda generazione, vedono ora concretizzarsi lo spettro di una nuova migrazione. Torino e Genova sono state le città operaie per eccellenza, e anche quando il mito della grande fabbrica è tramontato e gli operai hanno perso importanza, potere contrattuale e reddito, l’economia di quelle aree ha continuato ad essere fortemente dipendente dal salario operaio. A differenza di Milano, più votata al terziario e alla finanza, e che sembra cavarsela meglio anche grazie ai soldi dell‘Expo.

Scendendo più a sud, spiace constatare che dove non ha colpito la crisi, ci ha pensato il terremoto, come nel caso del distretto biomedicale di Mirandola, forse il maggiore d’Europa prima del sisma. Mentre le imprese più grandi tentano a fatica di ripartire, quelle piccole non ce la faranno mai senza un impulso statale per la ricostruzione.

Il settore agricolo, fatto dalla miriade di piccoli produttori, non se la passava molto bene prima e non se la passa certo meglio ora, tuttavia quelli che sono riusciti a ritagliarsi delle nicchie di qualità, riescono a mandare in qualche modo avanti le aziende, avendo per lo meno il pasto garantito, nella speranza di un freno all’importazioni agricole dovute anche alla moneta forte, ed un riequilibrio della filiera commerciale, troppo sbilanciata a favore della grande distribuzione.

Anche il comparto vinicolo pare aver tenuto meglio di altri, mentre le grandi industrie agroalimentari hanno dovuto fare i conti con una certa riduzione dei consumi alimentari negli ultimi anni della crisi, ma qui hanno operato gli ammortizzatori sociali.

I distretti del tessile erano già entrati in crisi ben prima del 2008, con la liberalizzazione dei mercati da parte del WTO, permettendo al tessile cinese di imporsi per i suoi bassi costi. In talune realtà italiane i cinesi hanno rilevato quelle attività sempre meno remunerative, trasformandole di fatto in fabbriche cinesi in suolo italiano, impedendo in tal modo il dissolvimento totale del distretto industriale, anche se di fatto in deroga alle leggi in materia di tutela del lavoro.

Città d’arte come Venezia, Roma e Firenze, hanno risentito ancora meno della crisi. La Capitale, in particolare, ha visto ridursi i suoi limitati distretti industriali della cosiddetta Tiburtina Valley e lungo l’asse pontino, della farmaceutica e dell’elettronica, soprattutto a causa della contrazione delle commesse statali e dei sussidi all’industria. Per il resto, il vasto comparto della pubblica amministrazione e del terziario stanno ammortizzando gli effetti della crisi economica.

Soffrono invece duramente gli effetti della crisi i rari distretti industriali del Mezzogiorno, come quello pugliese dell’arredamento o quelli campani del calzaturiero e agroalimentare, mentre i poli automobilistici e siderurgici erano entrati in crisi già alcuni anni prima, con ampio ricorso agli ammortizzatori sociali.

Tuttavia, essendo il Meridione per massima parte economicamente dipendente dai trasferimenti statali, il peggioramento è stato minore di quello possibile in loro assenza. Il problema è che il Mezzogiorno, a differenza delle aree ricche del paese, non dispone di infrastrutture moderne, né di servizi efficienti, tantomeno di ricchezze accumulate dalle famiglie, ed anche una lieve recessione rischia di farlo ripiombare nel terzo mondo, ove in effetti si collocava fino ad una trentina di anni fa.

Il panorama economico lungo la penisola è estremamente vario, così come gli effetti della crisi sul tessuto sociale e le reazioni da parte delle persone, diverse per l‘intensità degli effetti, per il livello di ricchezza pregressa, sia familiare che nell’area in generale, per la differenziazione del tessuto economico. Tanti e tali fattori fanno sì che possa patire conseguenze personali peggiori un piccolo imprenditore di un distretto industriale veneto, che un pescatore proprietario di una paranza a Mazzara del Vallo. Inoltre, spesso, ma non sempre, si riesce a sopravvivere meglio alla crisi in provincia che in un grande centro urbano.

Nel caso di lavoro dipendente, dunque, si può essere fortunati e usufruire degli ammortizzatori sociali, che garantiscono un reddito ridotto, anche se per un tempo limitato. In alternativa ci si può ritrovare improvvisamente disoccupati e senza reddito, talvolta privati pure dell’indennità di preavviso e del trattamento di fine rapporto, vuoi perché si lavorava in nero, vuoi perché il lavoro era a tempo determinato con rinnovo alla scadenza del contratto, o semplicemente perché l’azienda presso la quale si lavorava non ce l’ha fatta più a sopravvivere e chiude, fallisce o si trasferisce all’estero, lasciando i dipendenti in balia di tribunali, sindacati, regioni e INPS, tentando di recuperare qualcosa che aiuti a tirare avanti per un po’, nella speranza di trovare un altro lavoro.

Poi c’è il caso della miriade di piccole imprese, a conduzione familiare o con pochi dipendenti, divenuti col tempo di famiglia, che si ritrovano a fare i conti con riduzioni di ordini, ritardi nei pagamenti e crediti insoluti. Quasi tutte queste piccole imprese lavoravano con fidi bancari, una volta le banche gli scontavano addirittura le fatture (factoring). Ma siccome le banche ti danno l’ombrello quando c’è il sole e te lo tolgono quando piove, con la recessione, reclamano il rientro dei fidi, mentre Equitalia pretende tasse su guadagni ipotetici ancora da realizzare.

Accade a volte che questi piccoli imprenditori soffrano la crisi più dei lavoratori dipendenti, avendo garantito con i propri averi la solidità dell’impresa, rischiano di perdere in breve tempo non solo la propria attività, ma anche quello che avevano capitalizzato con tanti sacrifici. Ovviamente non stiamo parlando dei veri capitalisti, le cui ricchezze sono talmente ingenti e diversificate nel mondo globalizzato, da garantire a loro e alla loro progenie un piacevole avvenire, ma di quei milioni di italiani che hanno cercato di emanciparsi dal lavoro salariato, magari auto-sfruttandosi, talvolta evadendo, tuttavia sempre lavorando sodo e rischiando in proprio, forse anche perché il lavoro dipendente non l’hanno mai trovato e di santi in paradiso non ne avevano. Non sarà un caso se sono questi i soggetti statisticamente più rilevanti nel fenomeno dei suicidi per cause economiche in questi ultimi anni.

Poi ci sono i professionisti, quelli veri come i notai, i dentisti e gli avvocati, le partite iva fasulle come i praticanti e i programmatori, gli artigiani come l’idraulico e il riparatore TV. Gli evasori per definizione, o per necessità, a seconda il caso. Anche qui ci si trova in presenza di forti differenze, che vanno dall’estrema precarietà alla ricchezza più elevata. Una vera riforma del lavoro dovrebbe far emergere una buona volta i lavoratori dipendenti mascherati da liberi professionisti.

Infine per ciò che riguarda i pensionati, il 13,3% riceve meno di 500 euro al mese, il 30,8% tra i 500 e i 1.000 euro, il 23,1% tra i 1.000 e i 1.500 euro e il restante 32,8% percepisce un importo superiore ai 1.500 euro. In pratica il 44% percepisce meno di 1.000 euro al mese, su di un totale di circa 16 milioni di pensioni. In molti casi hanno svolto un ruolo di ammortizzatore economico nei confronti delle giovani generazioni investite dagli effetti della crisi, ma non potrà continuare indefinitamente. Sempre più pensionati si ritrovano a spulciare tra gli scarti di mercato o dover far affidamento sugli aiuti alimentari di organizzazioni caritatevoli.

La crisi ha dunque provocato effetti trasversali e differenti, all’interno delle categorie economiche e delle aree geografiche, che si sono rivelati d’ostacolo nel processo di coagulazione della protesta sociale, frutto della condivisione del malessere personale, finora massimamente confinato alla sfera individuale e familiare.

Data l’estrema frammentazione del lavoro in Italia, le conseguenze della crisi non sarebbero potute essere diverse. A margine di ciò va aggiunto che i partiti tradizionali hanno da tempo perduto la capacità di rappresentazione del disagio sociale, essendosi trasformati in conglomerati di interessi influenti, costantemente impegnati nella loro permanenza al potere, e a tal fine disposti a qualunque compromesso. Centrodestra e centrosinistra sono progressivamente andati sfumando le loro differenze programmatiche un po’ ovunque in Europa, convergendo infine in larghe coalizioni impegnate nella difesa dell’euro e dello status quo.

Questo lungo excursus tuttavia, nel tentativo di illustrare l’estrema variabilità delle situazioni, non rende minimamente atto della sofferenza nella vita reale delle persone, che non riescono più a far fronte alle necessità, dopo aver già drasticamente contratto il proprio tenore di vita. E’ difficile descrivere la pena di capi famiglia che non possono più garantire il tenore di vita pregresso ai loro cari, che rischiano lo sfratto perché non riescono più a pagare affitti e mutui, che hanno tagliato ogni spesa superflua e si ritrovano costantemente in arretrato. Sono loro stessi che a volte provano a squarciare il muro di silenzio, in un numero crescente di servizi giornalistici e di interventi sulla rete, rendendo per un attimo gli altri partecipi delle loro angosce, che spesso si riassumono nel timore di non riuscire più a garantire un futuro dignitoso ai propri cari, oltre a dover fare i conti con un presente di privazioni crescenti.

C’è chi non ce la fa a sopportare il proprio dramma e, senza vedere più prospettive future, decide di farla finita. C’è chi s’ammala e si lascia morire, chi s’ammala e non ha i soldi per curarsi. Chi s’impoverisce e deve rinunciare a tutto, tranne alla fame. C’è tanta sofferenza in giro, ma si preferisce ignorarla perché, malgrado tutto ci fanno credere che la ripresa dipende anche dalla nostra fiducia. Al dunque prevale il messaggio che non siamo la Grecia, che restiamo ancora abbastanza ricchi (i ricchi) e la ripresa è in vista, guai a diffondere pessimismo.

Può tale situazione protrarsi a lungo? Quanto ancora può durare quella che anche i “membri delle oligarchie europee” definiscono “la pazienza d’angelo che hanno avuto finora i popoli europei”? Cosa accade quando la rabbia da personale diviene collettiva?


Sopra al mio appartamento s’è trasferita una famiglia dal grande centro urbano. Penso che abbiano deciso di vivere in provincia per ridurre le spese. Hanno due figli grandi, entrambi disoccupati e probabilmente vivono tutti con la pensione del padre. Litigano violentemente ad ogni ora, vomitandosi addosso tutta la loro rabbia e frustrazione per una convivenza divenuta insostenibile e senza prospettive. Le offese e le parolacce si sprecano e talvolta sono tentato di chiamare la polizia, temendo che la lite possa degenerare. Penso che se dovesse accadere qualcosa di drammatico, la colpa sarà stata di anche tutti noi che non abbiamo saputo offrire un futuro alle nuove generazioni, lasciandoli alle prese con le catastrofi che abbiamo causato.

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Pubblicato da Rosso Malpelo

Libero pensatore