Dall’imperialismo coloniale al caos predatorio

BoschLa scelta del nome di questo blog trae origine anche dalla necessità di inquadrare in una strategia razionale quel disordine mondiale generato negli ultimi due decenni dagli interventi diretti ed indiretti del potere imperiale USA e dei suoi satelliti della NATO in diversi paesi, perlopiù geo-strategicamente importanti o con grandi risorse naturali. Attraverso l’uso combinato o alternativo di bombardamenti e invasioni terrestri, disgregazione dell’apparato statale tramite rivolte e tumulti, sostegno finanziario e addestramento di gruppi armati ribelli, infiltrazione nei centri decisionali e nell’informazione, soffocamento economico e isolamento politico, il tutto con gran profusione di denaro, allo scopo dichiarato volta per volta di estirpare il terrorismo, esportare la democrazia, combattere la tirannia e liberare i popoli, ma ottenendo puntualmente la destabilizzazione nazionale, il fallimento dello Stato, con esplosioni di violenza diffusa, in una parola il caos. Dall’Afghanistan alla Libia, dalla Siria allo Yemen, dalla Somalia all’Ucraina. Ovunque sia giunto l’intervento imperiale, pare aver generato una situazione peggiore di quella precedente, anche nel contagio del caos alle aree circostanti, sommerse dai profughi in fuga. E’ davvero frutto di insipienza e mancata previdenza questa nuova strategia imperiale? E’ casuale la fioritura di tanti gruppi di terroristi che giustificano un’emergenza permanente e l’assuefazione dei cittadini al conseguente stato di polizia?

Mi vado convincendo sempre di più che si tratti invece del mutamento di un fenomeno determinante per lo sviluppo del capitalismo, giunto fino all’attuale stadio di estrema diffusione planetaria e suprema concentrazione finanziaria, nell’assenza più assoluta, non solo di modelli economici alternativi, ma finanche di autorità pubbliche di controllo. Mi riferisco al fenomeno del colonialismo.

Il colonialismo nasce nel XVI secolo sull’esigenza del proto-capitalismo commerciale di allargare i propri mercati, contestualmente all’affermarsi in Europa degli stati nazionali. Si sviluppa in parallelo alla trasformazione in stati borghesi delle vecchie monarchie assolute, governate da un feudalesimo decadente, che progressivamente cede il potere alla nuova classe dominante, la borghesia capitalista. Laddove i colonizzatori riescono a sterminare le popolazioni indigene, come in nord America, le colonie arrivano presto ad emanciparsi, entrando anche in conflitto, ma poi integrandosi appieno nel sistema capitalista della madrepatria, richiamando successivamente milioni di emigranti dal Vecchio Continente. Una volta indipendenti, gli USA manterranno sempre una posizione anticolonialista, nonostante si trasformino, dopo la vittoria nella seconda guerra mondiale, in una superpotenza imperialista.

Tra il XIX ed il XX secolo il colonialismo evolve nell’imperialismo. Ai nuovi sbocchi di mercato si è aggiunta l’esigenza vitale dell’accaparramento delle materie prime, di cui ha disperato bisogno l’industria capitalista. Le grandi compagnie di commercio, che avevano gestito i traffici con le colonie su concessione delle vecchie corone, non sono più in grado di assicurare il controllo di vasti territori e popolazioni numerose, che vanno rivendicando la propria indipendenza. Subentrano quindi gli Stati, che provvedono ad espandere e mantenere il controllo delle colonie tramite lo strumento militare, assicurandosi lo sfruttamento di risorse e forza lavoro del loro impero coloniale. Questa fase è anche quella di maggior apporto delle potenze coloniali ai territori controllati, in termini di sviluppo di infrastrutture, creazione di sistemi giudiziari e pubbliche istituzioni, il che è perfettamente logico, considerato il livello di impegno richiesto da un’occupazione militare permanente. Milioni di cittadini europei inviati, con ruoli diversi, a colonizzare popolazioni e territori lontani e arretrati, ricreano, ove possibile, le medesime strutture sociali ed economiche della madrepatria, sotto la tutela vigile di un potere statale che conferisce a tale sforzo un carattere patriottico e persino benefattivo.

Con la seconda metà del XX secolo il colonialismo imperiale passa di moda, mentre una certa forma di nazionalismo si fa strada tra i popoli colonizzati, che reclamano sempre più forte l’indipendenza della propria nazione. Le colonie vengono così dismesse, anche se non è venuta meno l’esigenza capitalista di spazi di mercato e materie prime a buon mercato. D’altro canto, il controllo militare delle colonie era divenuto troppo oneroso per le potenze europee, drasticamente ridimensionate dai due conflitti mondiali. L’Inghilterra concede l’indipendenza all’India nel 1947, mentre la Francia aspetterà ancora 15 anni e due guerre sanguinose, prima di lasciare l’Algeria e l’Indocina. Sulla scena geopolitica si afferma ora una rigida divisione in due blocchi imperiali, alla cui appartenenza e coesione provvedono due formidabili arsenali atomici.

Fino al crollo dell’URSS, le ex colonie vengono, in una certa misura, lasciate libere di trasformarsi in stati nazionali, dotandosi di istituzioni più o meno democratiche che consentono di migliorare le condizioni del popolo, pur rimanendo dipendenti dalle potenze vittoriose, nell’ambito del blocco geopolitico di appartenenza. In questo periodo, lo sfruttamento economico e umano da parte delle ex potenze coloniali viene realizzato attraverso le grandi corporation multinazionali, con ciò che viene definito neocolonialismo economico e culturale. Tuttavia le grandi potenze industriali sono costrette a subire l’imposizione di prezzi di mercato per le materie prime, grazie alla nascita di cartelli tra paesi produttori e politiche di socializzazione degli introiti, operate da alcune leadership d’ispirazione socialista, non a caso invise al capitalismo internazionale, come quella di Mosaddeq in Persia, o di Nasser in Egitto. E’ questo il periodo in cui si consolidano i regimi autoritari nelle ex colonie africane e mediorientali, spesso favoriti dal capitale internazionale nella presunzione di poterne condizionare le politiche economiche.

A partire dagli anni Novanta del secolo scorso il colonialismo entra in una nuova fase ed i paesi più interessanti sotto il profilo predatorio cominciano a subire una strategia di destabilizzazione, portata avanti sia con campagne militari, che con azioni di intelligence, nonché con strumenti finanziari e monetari. Tale strategia rappresenta la moderna evoluzione dell’imperialismo coloniale. Dopo la fase del controllo militare e quella neocoloniale, basata sulla corruzione delle locali classi politiche al potere, subentra una forma di auto-predazione operata dalle stesse popolazioni autoctone, sempre più frammentate in guerre per bande fomentate e sponsorizzate da corporation e potenze esterne che hanno interesse a comprare le loro risorse dal miglior offerente, senza scrupolo alcuno. Questa nuova forma di imperialismo auto-predatorio ha il vantaggio di non richiedere la presenza permanente di contingenti militari né di coloni civili, ma solo di agenti ben introdotti e tanto denaro da profondere, inoltre una buona parte delle risorse trafficate dalle bande in conflitto – dal petrolio iracheno ai reperti archeologici siriani, passando per l’oppio afgano – può essere pagata in armi leggere, che non sono sottoposte a controlli internazionali sul loro commercio.

Un paese in guerra civile, con le sue istituzioni disgregate e screditate, e la società civile disintegrata e polarizzata dall’odio, offre molte opportunità di predazione e sfruttamento, a partire dai prezzi più bassi ai quali possono essere acquistate le sue ricchezze, a quelli maggiorati a cui rivendere i prodotti d’importazione (ovvero tutto ciò di cui c’è bisogno, essendo l’economia nazionale al collasso), all’emigrazione di masse di mano d’opera istruita e specializzata, alla creazione ed addestramento di piccoli eserciti mercenari specializzati in saccheggio e pronti ad intervenire in altri teatri di destabilizzazione. Per continuare con i traffici illeciti, inclusa la remunerativa tratta di esseri umani in fuga.

Se Lenin poteva definire “l’imperialismo come fase suprema del capitalismo” nel 1916, non si può negare la mutazione che da allora l’imperialismo ha intrapreso per adattarsi ai cambiamenti economici e politici prodotti dal capitale e dalle guerre che questo scatena nel suo incessante movimento di riproduzione e concentrazione. La nuova direzione che esso ha intrapreso da un quarto di secolo a questa parte è quanto di più coerente con la massima romana “divide et impera”, applicata su scala planetaria. Con la disgregazione delle fragili entità nazionali dei giovani stati nati dalle ceneri del vecchio colonialismo ed il caos conseguente, si ritorna al punto di partenza di secoli fa, quando tali nazioni non esistevano, le arretrate popolazioni erano soggiogate e le loro risorse controllate da grandi soggetti economici privati, quali le compagnie di commercio europee.

Sfuggono per ora a questa nuova fase predatoria i paesi BRICS, giacché troppo forti e popolosi per essere facilmente destabilizzati, tuttavia il contenimento militare da parte di USA e NATO della Russia e della Cina non è un mistero, mentre una batteria di nuovi trattati commerciali (TTIP, CETA, TISA) in fase di ratifica mondiale, mira a contenerne la potenza economica, in vista di un futuro regolamento di conti.

In conclusione, con le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, il capitalismo imperiale ha scoperto di non potersi più permettere occupazioni permanenti di grandi territori ostili, quindi ha ricalibrato la strategia, fomentando divisioni e discordia tra i diversi gruppi etnici e religiosi, al fine di generare situazioni di perenne conflittualità interna ed estrema debolezza delle istituzioni statali. In tali condizioni ha ritenuto più vantaggioso perseguire i propri scopi predatori per il tramite degli stessi gruppi in lotta tra loro, tuttavia sempre troppo piccoli per costituire una minaccia al potere imperiale. A far poi da cuscinetto tra il caos dilagante ed il cuore dell’impero c’è sempre la vecchia Europa, al cui capitalismo in affanno si fa dono di un esercito di forza lavoro giovane e disponibile a sostituire l’anziana e preteziosa classe lavoratrice europea. Mentre, col pretesto della crisi, il capitalismo europeo si va concentrando ulteriormente e lancia l’assalto finale alle vestigia residue di quello che fu il welfare europeo, mandando in soffitta non solo la vecchia socialdemocrazia, ma la democrazia tout court (complice anche lo stato d’emergenza perenne).

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Pubblicato da Rosso Malpelo

Libero pensatore