Ancora sul nostro declino

italiaE’ arduo spiegarsi come e perché un popolo di poeti, artisti, eroi, santi, pensatori, scienziati e navigatori, con millenni di storia ed arte ovunque testimoniati in un territorio che mezzo mondo invidia, possa passare in pochi decenni da quinta potenza economica mondiale a decima, con un declino inarrestabile che travalica i confini economici, coinvolgendo lo Spirito stesso della nazione, quello che spinge artisti e pensatori, santi e scienziati a precedere i tempi nel delineare un futuro per la società. Quello che infonde fiducia nel prossimo e fede nel futuro, che fa sentire simili e con un comune destino. E’ in declino la nostra cultura e si va progressivamente degradando quell’immenso patrimonio italiano, di cui dovremmo essere premurosi custodi. E’ in declino il welfare e la pubblica istruzione. E’ in declino la politica e la nostra democrazia, per via della scarsa partecipazione popolare, ed è in declino la stessa popolazione, che si fa sempre più anziana e con un tasso di natalità tra i più bassi del mondo.

Con l’arrivo della crisi il nostro declino ha drammaticamente accelerato. Ci ritroviamo in deflazione dopo tre anni di recessione; il 12,6% di disoccupazione ufficiale, forse il doppio quella reale; oltre il 130% di rapporto debito/Pil, con tendenza al 150% entro il 2019, ma soprattutto nessuna luce in fondo al tunnel. Il refrain dei governi degli ultimi anni è stato: stima di dati che puntualmente vengono corretti al ribasso dopo qualche mese.

Certo la crisi è dura, ma l’Italia sembra soffrirla più di altri. Il declino del Paese, drammaticamente evidenziato dalla contrazione di un quarto della produzione industriale dal 2007, appare in tutta la sua portata nella perdita di posti di lavoro e di reddito, nei distretti industriali che vanno desertificandosi, negli innumerevoli cantieri fermi e abbandonati, nei negozi che chiudono, nell’emigrazione che torna a crescere.

E’ solo colpa dell’Europa e della moneta unica che ci soffoca, o c’è dell’altro? Vero che anche prima dello scoppio della crisi, la nostra crescita è stata alquanto asfittica, proprio a partire dall’adesione alla moneta unica. Ci è stato prospettato il sogno dell’unità d’Europa, senza neppure aver completato quella d’Italia, e tutto vi è stato subordinato, ma con la crisi, l’Europa s’è fatta matrigna e il sogno s’è trasformato in incubo. Tuttavia è innegabile che il Paese abbia accumulato un divario nell’ammodernamento delle proprie infrastrutture, ivi compresa la macchina della pubblica amministrazione, rispetto ai progressi di molte altre nazioni. Ciò che viene definito Sistema Italia, ha subito un degrado dovuto ad anni di ritardi e inefficienze, finendo per privilegiare una diffusa burocrazia disfunzionale, ed essere d’ostacolo alla crescita.

Anche il mondo dell’impresa ha la sua parte di responsabilità nel declino. Il modello che ha caratterizzato lo sviluppo dell’Italia dal dopoguerra, era ed è basato sulle piccole e medie imprese, spesso a conduzione familiare. Il capitalismo familiare, in tutte le sue declinazioni, è stato il pilastro ma anche il limite di tale modello, quando la globalizzazione ha bussato alle nostre porte e le aziende hanno dovuto confrontarsi con un mondo in rapido mutamento. Non tutte le aziende del made in Italy hanno saputo gestire il cambiamento; anziani imprenditori hanno presunto di destreggiarsi nel mercato globale come nella fabbrichetta padana, oppure hanno passato le redini ad una seconda generazione impreparata e senza idee, i più furbi si sono accaparrati pezzi di patrimonio pubblico privatizzato, vivendo di rendita. Quelli che hanno potuto ed hanno avuto lungimiranza, si sono dati un management adeguato (top-squali appositamente istruiti alla bisogna) ed hanno delocalizzato. Davvero pochi hanno innovato i prodotti, scegliendo piuttosto di comprimere i costi per reggere la concorrenza e magari investire nella finanza i profitti accumulati. Poi ci sono le banche, il potere che conta davvero in Italia, ed a loro la globalizzazione ha fatto un mare di bene, nonostante siano rimaste scottate anche loro dalle speculazioni finanziarie.

La politica da parte sua è rimasta pietrificata per un ventennio nella rappresentazione farsesca di Berlusconi e la sinistra in alternanza simbiotica, ed alfine insieme appassionatamente. Indifferente alle esigenze di adeguamento del Sistema Paese, ed avendo riposto tutte le speranze future nel sogno europeo, ha continuato a dilapidare risorse e distribuire poltrone profumatamente retribuite a fidati incapaci, contando nello stellone italico. In calo di credibilità e consensi, con l’arrivo della crisi, centrodestra e centrosinistra hanno dovuto dar vita al grande inciucio per salvare le loro poltrone, minacciate dall’antipolitica. Da tre anni governano insieme il declino accelerato dell’Italia, senza essere in grado di spostare di una virgola le politiche di austerità decise a Berlino, che pure a detta di tutti stanno aggravando la situazione.

Da sei mesi la politica ha tirato fuori dal cilindro Matteo Renzi, il suo compito è lo stesso di Monti e Letta: far digerire agli italiani le politiche restrittive volute dalla Merkel e le “riforme” richieste dalla BCE. Questa volta è stato scelto un imbonitore alla Berlusconi, in grado di distrarre e sedurre ben più dei suoi due predecessori, tuttavia il suo destino non sarà diverso se il trend negativo proseguirà, come tutto lascia prevedere. Gli sviluppi dell’ultim’ora indicano che le forze (politiche ed economiche) si stanno disponendo per la resa dei conti finale. A breve Re Giorgio tirerà fuori un nuovo coniglio dal cilindro, e il gioco ricomincerà, almeno fino a quando non avranno partorito una legge elettorale su misura che gli garantisca la poltrona ad libitum, o la troika non sarà intervenuta.

Sic stantibus rebus, il nostro declino può imputarsi a diversi fattori, alcuni più recenti, altri più antichi. Non ultimo, anche il popolo sovrano, che stenta a scrollarsi quel torpore post euro-sogno e prendere atto che nulla è dato per sempre, incluso il lavoro, i diritti e la democrazia. In una parola, quel livello di benessere che era stato faticosamente raggiunto e che andava custodito e difeso, ad esempio partecipando attivamente alle scelte cruciali per il Paese, come l’adozione di una moneta unica, o l’adesione a quel Fiscal Compact che, approvato all’unanimità (e alla chetichella) due anni fa dal Parlamento, è oggi oggetto di una raccolta di firme per un referendum da parte della CGIL e di molti “economisti di sinistra”, all’epoca allineati e coperti. Invece il popolo ha ritenuto meglio delegare queste ed altre scelte ad una classe politica incapace quando non corrotta, e mal gliene incolse.

Questa classe politica è stata facile preda di interessi forti europei, come facile preda è divenuta la nostra piccola e media impresa. La debolezza della politica e dell’impresa italiana ci ha reso subalterni nelle decisioni europee, che a loro volta stanno indebolendo ulteriormente la nostra economia, in una spirale perversa. Fino a quando l’onere del debito diverrà insostenibile e potremmo essere costretti al default, ma per allora saremo stati spremuti per bene.

Voglio azzardare una risposta al tema introduttivo: per me, la globalizzazione ha fatto male all’Italia. La nostra struttura economica e sociale mal s’è adattata alle regole imposte dalla mondializzazione, se si escludono alcuni settori di nicchia. Le imprese hanno sofferto il loro nanismo e, ad eccezione del settore finanziario, non c’è stata alcuna corsa alla concentrazione. Anche la nostra indole caratteristica nazionale ha costituito un freno all’adattamento ai nuovi processi in atto, guidati da visioni cosmopolite e sostanzialmente apolidi. L’Italia dei mille campanili e delle Signorie, delle corporazioni e dei mestieri, il suo individualismo e la scarsa propensione alla disciplina, non si è trovata più a suo agio al venir meno dei protezionismi e alla piena libertà di movimento dei capitali, nonché alla repentina trasformazione da paese d’emigranti a meta di masse di immigrati.

Non sarà facile, e soprattutto non sarà indolore, la risalita dal declino. Essa presuppone tra l’altro che centinaia di migliaia di persone distribuite nei posti chiave della pubblica amministrazione e dell’impresa privata, cambino mentalità e dimostrino doti finora inusitate, migliorando notevolmente l’efficienza dell’organizzazione a loro affidata, magari pensando un po’ meno al proprio tornaconto e un po’ più al bene comune. In altre parole, che facciano bene il lavoro per il quale sono (ben) pagati. Ma siccome il merito non è stato quasi mai il parametro di cooptazione in alto loco, va da sé che i risultati migliori si otterranno solamente sostituendo una quota parte della classe dirigente di questo Paese con una veramente capace e preparata, i cui risultati siano verificati e valutati dai cittadini e, perché no, anche dal mercato.

Una cosa deve essere però chiara a tutti: non sarà possibile alcuna risalita dal declino se gli italiani non decideranno di riprendere in mano i propri destini, e per far ciò è necessario liberarsi di tutti i quei vincoli esteri e lacci al collo stranieri a cui l’inetta classe politica ha sottomesso l’Italia in questi anni.

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Pubblicato da Rosso Malpelo

Libero pensatore