Guerra e crisi

distrE’ opinione diffusa che questa crisi economica sia peggiore di quella scatenata dal crollo di Wall Street nel 1929. Molte analogie lasciano ipotizzare che, come allora, una vera ripresa possa avvenire solo dopo una guerra mondiale, che anche a detta di Papa Bergoglio, è già in atto “a pezzettini”.

Al crack del ’29 fece seguito un decennio di depressione e deflazione da cui si uscì solo con l’impegno bellico e la successiva ricostruzione. Allora come oggi, la crisi avviata dalla speculazione finanziaria, ha impattato su di un’economia “fondamentalmente malsana“, come argomenta J.K. Galbraith nel suo insuperato saggio del 1955, “Il grande crollo“, in cui ne identifica le debolezze, a partire dalla cattiva distribuzione del reddito, che oggi chiamiamo disuguaglianza. Anche allora la produttività era cresciuta, grazie al progresso tecnologico, di più dei salari reali, andando ad ingrassare i profitti che, per dirla con le parole del compianto economista: “sostenevano le spese dei ricchi e inoltre alimentavano almeno in parte gli investimenti che erano dietro al boom del mercato azionario. […] La proporzione del reddito personale ricevuta sotto forma di interessi, dividendi e rendite (il reddito, parlando in generale, proprio delle categorie agiate) era circa il doppio di quella degli anni successivi alla seconda guerra mondiale”.

Scrive Galbraith che “il tracollo del mercato azionario nell’autunno del 1929 era implicito nella speculazione che l’aveva preceduto“. Quella speculazione che è alla base di ogni boom, favorita dal diffuso senso di ottimismo e fiducia, indotto da un sufficientemente lungo periodo di crescita economica. E’ proprio quando il capitalismo fa balenare la possibilità di un arricchimento diffuso, che la società tende ad identificarsi completamente con le sue regole e i suoi scopi, cessando di considerare finanzieri e capitani d’industria spietati pescecani, quando non direttamente truffatori e gangster, ma li assume a modello, che si verificano le condizioni favorevoli per la speculazione. Purtroppo ad ogni boom speculativo fa inevitabilmente seguito un crollo dei valori. Nel corso del tempo è accaduto con i tulipani, con le miniere d’oro da scoprire, con le ferrovie da espandere, con le nuove imprese informatiche, con le case e ovviamente con i titoli di ogni genere che venivano creati in una catena di Sant’Antonio affinché la speculazione si diffondesse. Ogni volta la bolla s’è sgonfiata e gli ultimi rimasti con il cerino in mano si sono ritrovati sul lastrico.

Questa volta però di grandi speculatori sul lastrico se ne sono visti pochi, anche perché le perdite, a questo giro, sono state largamente socializzate e gli stati hanno visto un bel balzo dei loro debiti pubblici. L’indebitamento globale è arrivato al 286% del PIL mondiale, giacché anche il debito privato è andato aumentando, mentre i ricchi continuano a guadagnare dalle loro speculazioni grazie ai Quatitative Easing delle Banche Centrali, che vanno ad alimentare investimenti finanziari, visto che quelli nell’economia reale non garantiscono gli stessi rendimenti.

Come nella grande depressione degli anni Trenta, molte delle misure intraprese in Europa hanno inutilmente aggravato la situazione, a partire proprio dal totem del pareggio di bilancio che i nostri politici (caso unico) hanno inserito addirittura in Costituzione. Ancora una volta le parole di Galbraith ci dimostrano le similitudini d’approccio alla crisi: “Il pareggio di bilancio non era l’unica camicia di forza della politica. C’era anche lo spauracchio dell’uscita dal sistema aureo e, sorprendentemente, del rischio d’ inflazione […] La svalutazione del dollaro era, com’è naturale, recisamente scartata: violava direttamente i principi del sistema aureo. Nella migliore delle ipotesi, in simili periodi di depressione, la politica monetaria è una debole canna per appoggiarvisi. I correnti cliché economici non consentivano neppure l’uso di quella fragile arma. Anche questi atteggiamenti non conoscevano confini di partito.”

Oggi come allora le élite alla guida delle nazioni capitaliste si rispecchiano in toto nel pensiero economico della classe dominante, ovvero di quel uno percento ricco della popolazione che ha a cuore la solidità della propria ricchezza ben più di quella del sistema. Tanto più oggi che il capitale è totalmente globalizzato e la ricchezza può essere distribuita su cinque continenti, ove più conviene. Scrive ancora Galbraith: “Infine, quando ormai la sventura si era abbattuta, gli atteggiamenti mentali dell’epoca impedirono che si facesse qualcosa. Questo fu, forse, l’aspetto più sconcertante. Alcuni patirono la fame nel 1930, 1931 e 1932. Altri furono tormentati dal timore di patirla in avvenire. Altri soffrirono l’agonia della perdita dell’onore e della rispettabilità che accompagna la caduta in miseria. Altri ancora temettero che sarebbe presto venuta la loro volta. Intanto tutti erano tormentati da un senso di estrema disperazione. Sembrava che nulla potesse essere fatto. E, date le idee che dominavano la politica, nulla si poteva fare. Se l’economia fosse stata fondamentalmente sana nel 1929, l’effetto del grande crollo della borsa sarebbe forse stato lieve […] Ma l’economia nel 1929 non era sana; al contrario era terribilmente fragile. Era vulnerabile al tipo di colpo che ricevette da Wall Street.

La crisi non passerà tanto presto perché le cause che l’hanno innescata sono tutte lì, come i derivati tossici, dove sono stati impacchettati i mutui subprime. I debiti sono aumentati e chi sta pagando gli interessi sono le fasce più povere delle popolazioni, sulle quali s’abbatte la scure dei tagli alla spesa pubblica, l’inasprimento fiscale e la disoccupazione dilagante. Mentre la classe dei ricchi continua a fare denaro e “business as usual“. Tutto ciò accresce le tensioni nel mondo, soprattutto nei paesi più poveri, dove i conflitti esplodono sempre più violenti, favoriti anche dalla strategia geopolitica della superpotenza egemone, che ormai in declino, ha scelto di diffondere caos e disordine lontano dai propri confini per non rischiare di dover affrontare conflitti armati in grande stile contro eserciti nazionali.

La seconda guerra mondiale consentì l’uscita dalla depressione al costo incommensurabile di vite umane e distruzione, ma offrì un imperativo superiore a popoli e governi che giustificava scelte economiche altrimenti considerate stataliste e anti liberali; spinse alla creazione di nuove e più distruttive armi basate su progressi scientifici e tecnici che si sono riversati sull’industria civile nel dopoguerra; creò opportunità di piena occupazione con lo sforzo bellico prima e la ricostruzione poi. Infine, mise un po’ più di sale nella zucca delle classi dirigenti del dopoguerra, che operarono scelte che consentirono trent’anni di pace e di sviluppo più equilibrato di quanto lo fosse stato in precedenza. Ma quella classe è ormai stata sostituita e, con la caduta dell’URSS, il capitalismo ha progressivamente riconquistato gli spazi che gli erano stati sottratti, riportando indietro l’orologio della storia.

Quella guerra nacque dal perdurare della depressione economica e dal declino della potenza egemone d’allora, la Gran Bretagna, che dovette cedere la supremazia alla potenza economica e militare USA. Ridefinì i rapporti di forza nel mondo con la creazione dell’ONU, che oggi appare svuotato e quanto mai incapace ad affrontare i conflitti che sempre più numerosi si vanno diffondendo sul pianeta. Ultimo, ma non meno importante, ridefinì anche il nuovo sistema economico mondiale, con gli accordi di Bretton Woods, che accompagnò egregiamente lo sviluppo dei commerci nel trentennio glorioso.

Dunque una guerra ci salverà dalla crisi? Il capitalismo potrebbe anche farcelo credere, se non fosse per la profezia di Albert Einstein: “Non so con quali armi verrà combattuta la terza guerra mondiale, ma so come lo sarà la quarta. Con la clava.

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Pubblicato da Rosso Malpelo

Libero pensatore