La crisi vista dal basso ha fondamentalmente due facce speculari: la scarsità di lavoro e quella di denaro. I soldi scarseggiano perché c’è sempre meno lavoro e quel poco è anche malpagato, ma anche il lavoro a ben vedere scarseggia perché ci sono pochi soldi in giro. Anche chi di soldi ne ha in abbondanza, in periodo di crisi tende ad adeguarsi alla diffusa sobrietà, vuoi per non dare nell’occhio, vuoi perché pure gli investimenti migliori quando l’economia non tira divengono rischiosi.
Un moderno sistema economico è come un motore a scoppio, necessita del carburante per funzionare, e la quantità ottimale di carburante è quella che consente al motore di andare a regime, ovvero di fornire l’energia ideale in rapporto al consumo per il tempo maggiore con la minima usura. E’ noto a chiunque che al di sotto di un regime minimo di alimentazione e quindi di energia erogata dal motore, questo tende a spegnersi. Lo stesso sta accadendo con il complesso motore della nostra economia: dopo aver calato drasticamente il numero di giri, sta inesorabilmente arrivando al regime minimo di funzionamento, oltre il quale il sistema rischia di arrestarsi completamente.
Se si trattasse davvero di un motore, basterebbe aprire l’acceleratore per far riprendere giri, nel caso della nostra economia occorre invece un altro tipo di carburante: i soldi.
In un sistema economico funzionante i soldi vengono iniettati essenzialmente attraverso il credito bancario e gli investimenti pubblici. Entrambe queste fonti sono però all’asciutto, le banche hanno in pancia una marea di titoli pubblici e di crediti in sofferenza, risentono della caduta dei valori immobiliari e devono rispettare i vincoli patrimoniali degli accordi di Basilea. Lo Stato vede ancora crescere pericolosamente il proprio debito pubblico, nonostante gli aumenti delle tasse e i tagli alle spese degli ultimi 18 mesi di austerity, proprio a causa del PIL che decresce ormai da 7 trimestri consecutivi, e non che fosse aumentato poi di molto negli ultimi dieci anni, essendo stata l’Italia il fanalino di coda della crescita in Europa.
Comunque sia, debito non possiamo più farlo, anzi con il Fiscal Compact ci siamo impegnati a ridurlo di una cinquantina di miliardi l’anno per i prossimi venti anni. In più dobbiamo contribuire al capitale del MES (il fondo salva stati, o salva banche), con una quota di 125 miliardi, di cui 25 versati l’anno scorso. Poi ci sono sempre gli ottanta e passa miliardi l’anno di interessi sul nostro debito, che in caso di decollo dello spread farebbero presto a lievitare.
Insomma, si direbbe che siamo rimasti a secco. Può uno stato restare a corto di denaro? Certo che può, quando vigeva il regime aureo molti stati si dissanguavano per gli sforzi bellici e dovevano ricorrere a prestiti privati. L’oro era la moneta comune e per procurarsela gli stati potevano solo tassare i cittadini o indebitarsi con ricchi mercanti e banchieri.
Però così funzionava una volta, oggi non esiste più la parità aurea, la moneta è una garanzia fiduciaria degli stati con cui vengono effettuate tutte le transazioni economiche e pagati i tributi. Effettivamente la maggior parte degli stati, ovvero quelli che ancora godono di sovranità monetaria, gestiscono la quantità di moneta da immettere nel sistema (o almeno una parte). Gli Stati Uniti ad esempio, attraverso la FED hanno iniettato 3 trilioni di dollari dall’inizio della crisi. La BOJ sta attuando un’aggressiva svalutazione dello yen grazie a massicce dosi di moneta, incurante del debito pubblico al 230% del PIL. La Gran Bretagna ha nazionalizzato diverse banche ripianandone i debiti grazie alle emissioni della BOE. Anche la BCE, con le operazioni LTRO ha immesso un trilione di euro nelle banche. Il problema dei debiti sovrani nell’eurozona è in definitiva sorto all’indomani dell’intervento pubblico di salvataggio delle banche dopo la Lehman Brothers.
Che fine hanno fatto tutti questi soldi? Sono andati a sostituire pezzi di carta che avevano perso ogni valore, prodotti di quella speculazione finanziaria che è cresciuta a dismisura negli scorsi decenni. Finanza che ha prodotto non merci da utilizzare, ma pezzi di carta da rivendere. Una quantità abnorme di ricchezza virtuale che ad un certo punto è collassata, trascinando con se tutto il sistema economico. Così è stato necessario arginare il crollo iniettando massicce dosi di liquidità nel sistema.
Tuttavia l’intervento della BCE non è stato tale da compensare il credit crunch verificatosi nei paesi della periferia, limitandosi alla sola messa in sicurezza delle banche e dei titoli pubblici, per mezzo di prestiti all’interesse del 1% alle banche, che hanno utilizzato fondamentalmente per comperare debito pubblico, accontentandosi di un basso ma sicuro rendimento. Le banche avevano bisogno di raddrizzare i propri bilanci dopo la scorpacciata di titoli tossici e nel frattempo dovevano affrontare le ricadute della contrazione economica in termini di mancati rimborsi, o crediti in sofferenza che dir si voglia.
Quanto siano a rischio le banche italiane non è dato saperlo. Si sa però che hanno chiuso i rubinetti. I mutui per l’acquisto di prima casa sono diminuiti di oltre il 45% nel 2012. Il credito alle imprese s’è ridotto al lumicino, come lamentano migliaia di piccoli e medi imprenditori, e, a giudicare dalla contrazione dei consumi, anche il microcredito segna il passo.
Dunque come far ripartire il sistema? Con una massiccia iniezione di moneta. Di quale entità dovrebbe essere l’iniezione di denaro? A mio avviso il 10% del PIL per i prossimi 5 anni, ovvero circa 150 miliardi l’anno, che corrispondono grosso modo alla somma del rientro dal debito previsto dal Fiscal Compact, più la quota di partecipazione al MES e il servizio sul debito. Dove reperire le risorse necessarie? Nonostante tutto l’Italia rimane un paese ricco e quindi una possibilità potrebbe essere quella di prelevare ulteriore ricchezza dai cittadini, tuttavia la pressione fiscale è già estremamente elevata e ulteriori inasprimenti indiscriminati rischierebbero di deprimere maggiormente l’economia ottenendo l’effetto opposto a quello desiderato.
Una imposta mirata sulla ricchezza, tipo patrimoniale, potrebbe essere una soluzione, ammesso che la politica riesca a superare le prevedibili resistenze dei ricchi. La politica dovrebbe anche dar prova di oculatezza nella spesa in generale, per guadagnarsi la legittimità di espropriare parte delle ricchezze dei cittadini al fine di far ripartire il sistema economico.
In alternativa all’esproprio di ricchezza possiamo uscire dall’euro e riprenderci la sovranità monetaria, ritirarci dal MES e chiedere indietro le quote versate, rinegoziare le scadenze del debito pubblico in mani italiane per i prossimi cinque anni. Lasciar svalutare la lira di un 30% su dollaro ed euro, nazionalizzare e ricapitalizzare le banche in default.
La scelta è al popolo italiano, esito dello scontro tra gli interessi dei grandi gruppi economici già saldamente proiettati nel mercato globalizzato e la miriade di piccole e medie imprese, da sempre struttura portante di questo paese ed ora in rapida estinzione.
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