Business as usual

Il solo capitalismo finanziario non può sorreggere l’intera economia, eppure dall’inizio del nuovo millennio è stato proprio il capitalismo finanziario, quello delle speculazioni di borsa ed in particolar modo sui derivati, a trainare i profitti dei grandi investitori mondiali e quando nel 2008 è scoppiata negli USA la bolla dei mutui sub-prime causando il fallimento della Lehman Brothers (uno di quei grandi investitori) si è rischiato che venisse giù tutto il castello di carta del capitalismo finanziario. Le banche centrali sono quindi corse a sostegno di quel castello, creando migliaia di miliardi di dollari, euro, yen e sterline, a sostegno del sistema, aggiungendo così altra carta al castello di carta traballante, nella speranza di mantenerlo ancora in piedi. Giacché una parte marginale di quella carta finisce anche nell’economia reale sotto forma di prestiti ed investimenti alle imprese che producono qualcosa di concreto, ovvero beni e servizi. La creazione di un’enorme quantità di moneta a debito, come attualmente avviene tramite il sistema bancario, ha logicamente condizionato i tassi di sconto applicati dalle banche centrali, portandoli praticamente a zero e, come previsto da Keynes, il sistema è entrato nella trappola della liquidità.

Tutto ciò perché il saggio di profitto è andato inesorabilmente declinando dagli anni della ricostruzione postbellica, in generale dalla seconda metà del secolo scorso, ma ancor più se si prendono a riferimento i profitti generati tra la fine del ‘700 e la metà del ‘800 durante la prima e la seconda rivoluzione industriale. La concorrenza ed i sopravvenuti limiti allo sfruttamento della forza lavoro hanno riportato in discesa la curva dei profitti. Tuttavia il capitalismo manifatturiero ha continuato ad espandersi grazie all’innovazione tecnologica e dei processi produttivi, nonostante la diminuzione dei tassi di profitto, i numeri crescenti della produzione garantivano un sostanziale e continuo guadagno agli imprenditori (o padroni che dir si voglia), che per inciso avevano ancora una parte attiva nei processi produttivi.

Con l’aumento della dimensione delle imprese ed il loro replicarsi in altri paesi e città, al padrone si è andato sostituendo un consiglio di amministrazione composto da tecnici-manager e fiduciari delle banche che consentivano con il loro credito l’operatività dell’impresa, divenuta nel frattempo società per azioni per reperire sul mercato del risparmio il necessario capitale per poter espandere sempre più dimensioni e produzione. Le azioni costituiscono quote della proprietà e possono essere vendute o scambiate ad un prezzo variabile, stabilito di volta in volta alla Borsa Valori. A scadenze fisse gli azionisti si attendono una remunerazione per le azioni possedute, quei famosi utili che qualora l’azienda abbia realizzato guadagni al netto dei costi vanno redistribuiti tra gli azionisti.

La caduta del saggio di profitto da un lato e l’avidità della dirigenza dell’impresa dall’altro hanno contribuito nel tempo ad assottigliare gli utili dei piccoli azionisti, che non scelgono il management, rimasto appannaggio dei reali proprietari. Con il gigantismo d’impresa e l’avvento delle multinazionali, anche i vecchi proprietari hanno ceduto il posto ai grandi fondi d’investimento, che rastrellando il risparmio privato su vasta scala, come ad esempio i fondi pensionistici, hanno denaro a sufficienza per acquistare il controllo azionario di qualunque impresa quotata in borsa e nominare un management di fiducia. Occorre notare che mentre l’azionista è maggiormente fidelizzato e può anche accettare un minor dividendo oggi per uno maggiore domani, di norma i grandi fondi d’investimento devono garantire a se stessi ed ai loro risparmiatori un guadagno certo e crescente, pena la fuga dei risparmiatori verso altri fondi più remunerativi.

Le moderne corporation vivono in funzione delle relazioni semestrali dove vengono dichiarati lo stato patrimoniale ed il conto economico, indicatori di ciò che si metteranno in tasca i risparmiatori, piccoli o grandi che siano. Se il patrimonio non aumenta, se il conto economico è peggiore della precedente semestrale, il consiglio di amministrazione rischia di essere sostituito, perdendo remunerazioni milionarie.

In fin dei conti è questo il nucleo del moderno capitalismo, piccoli risparmiatori e ricchi milionari che reclamano la propria quota di profitto, anche se il loro unico sforzo è quello di conferire i propri soldi nel fondo comune d’investimento, che per moltissimi è l’aspettativa di una pensione di vecchiaia dignitosa, mentre per altri meno numerosi è l’aumento della già cospicua ricchezza, in ogni caso per tutti costoro non è poi così interessante sapere come questo profitto venga generato, se sfruttando dei lavoratori piuttosto che finanziando fabbriche di armi, o foraggiando politici e giornalisti per creare consenso attorno ad un’impresa profittevole anche se inquinante o poco etica. Pecunia non olet.

E’ purtroppo finito il tempo dei padroni con tuba e marsina che gestivano personalmente le proprie fabbriche ed il loro aspetto opulento tradiva già dall’arrivo il plusvalore sottratto ai lavoratori. Oggi ai loro posti vi sono altri dipendenti meglio pagati che attuano algoritmi che altri hanno realizzato per ottimizzare produzione e profitto.
Tuttavia ora ci troviamo nel post-capitalismo, i profitti generati dalla produzione e consumo di beni e servizi decrescono anche a causa della depauperazione della classe lavoratrice, diminuiscono in ragione della disoccupazione dovuta alla delocalizzazione delle manifatture in paesi a più basso costo di mano d’opera e minori tutele sindacali ed ambientali, cosicché sempre più soldi finiscono nel capitalismo finanziario dei fondi d’investimento, creando una cortina di nebbia tra i profitti intascati ed i metodi usati per generarli. Ma alla fine neppure ciò è sufficiente a placare l’avidità crescente di chi pretende di fare soldi con i soldi.

La speculazione finanziaria non può crescere all’infinito, anche perché tutto questo denaro creato dal nulla è debito di qualcuno, nel momento in cui esce dal circuito finanziario per essere speso nell’acquisto di beni concreti e siccome stiamo parlando di più di due milioni di miliardi di euro, ovvero 33 volte il PIL mondiale, o si attua una svalutazione colossale che porterebbe alla miseria miliardi di individui, oppure si ridà ossigeno al capitalismo produttivo, producendo e vendendo miliardi di nuovi beni in tutto il mondo.

Si, ma cosa? Automobile, televisione, computer e smartphone ce l’anno già tutti (e chi non ce l’ha non se li può proprio permettere, neppure a debito). Inoltre, per uscire dalla trappola della liquidità Keynes suggeriva l’aumento della spesa pubblica, quindi, per prendere i classici due piccioni con una fava, andrebbero fatti ingenti acquisti con denaro pubblico di beni che ridiano un po’ d’ossigeno al capitalismo produttivo, in particolare anglo-americano.
Ecco l’idea.
… Si potrebbero produrre velocemente dei nuovi farmaci indispensabili, salvavita, per somministrarli a buona parte dell’umanità. Ciò darebbe un grosso introito alle case farmaceutiche, soprattutto quelle controllate dai fondi d’investimento, che poi sono essenzialmente in USA e in UK. Questi nuovi prodotti farmaceutici potrebbero essere acquistati in blocco dagli stati, meglio se in trattativa segreta, e somministrati più o meno volontariamente a tutti, meglio ancora se ripetutamente, grazie ad una campagna di stampa martellante che instilli nei cittadini la paura del male e al contempo esalti l’efficacia del farmaco. Se poi dovessero esserci effetti collaterali per una ristretta parte di popolazione, pazienza. Sarà stato un equo tributo allo scampato rischio di un’ecatombe per malattia.

… Certo, non può essere una soluzione duratura, ma per un po’ avrà messo in moto una bella fetta di economia della produzione. Tuttavia, dopo Big Pharma, bisognerebbe dare sostegno anche ad altri settori industriali, parimenti controllati dai grossi fondi d’investimento, come ad esempio quello della produzione di armi. Ora che è finita la guerra in Afghanistan c’è pure il problema del rinnovamento dei sistemi d’arma. Ci vorrebbe una guerra confinata ad un paese abbastanza grande da poter utilizzare tutte le vecchie armi della NATO, così che possano essere rimpiazzate con armi nuove, in maggior parte di fabbricazione USA, ma non solo. Occorrerebbe un popolo così esaltato e fomentato da usare tutto quel popò di armi vecchie, magari immolandosi in uno scontro impari che trasformi quel paese in una immensa discarica d’armi e bombe. Un paese che non appartenga alla NATO per non rischiare l’allargamento del conflitto, dotato di una classe politica talmente stupida e corrotta da lasciarsi coinvolgere in questa operazione folle, di 5 o 6 mesi di durata, per poi riparare all’estero ben foraggiata di denaro.

Smaltite le vecchie scorte di armi convenzionali ed avviati gli ordinativi per quelle nuove, si potrà lasciar sfuggire la dirigenza di quel paese alla prevedibile rabbia popolare ed una nuova dirigenza più ragionevole potrebbe accordarsi per una pace più o meno duratura. Ci sarebbe tanto da ricostruire e, dopo qualche tempo gli affari riprenderebbero “as usual” in tutto il mondo, d’altra parte l’Europa non può davvero fare a meno delle materie prime a buon mercato se vuole rimanere un competitor globale.

Non pensavate mica che avrebbero lasciato scoppiare una guerra atomica? Dopo chi ci resterebbe a fare affari?

 

Post scriptum: qualcuno si starà già chiedendo qual è il tornaconto della Russia in questa operazione. Beh, intanto il rinnovamento degli arsenali convenzionali non è un problema solo della NATO, tanto più che può essere finanziato dai maggiori introiti dovuti all’aumento dei prezzi dei combustibili fossili esportati. In più l’aggressività (verbale) dei paesi NATO sarà contrastata con un’ineluttabile vittoria sul campo che consoliderà il consenso per la sua dirigenza per i prossimi dieci anni.

In questo gioco vincono tutti i potenti al potere, a perdere come al solito saranno solo i popoli.

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Pubblicato da Rosso Malpelo

Libero pensatore